Come per altri temi critici, anche sul futuro della politica energetica USA la posizione dei candidati alle elezioni presidenziali è stata sinora, nella migliore della ipotesi, ambigua. Né Donald Trump, né Kamala Harris hanno presentato, in campagna elettorale, una strategia energetica coerente, lasciando trasparire la loro visione – al più – attraverso una serie di spunti impressionistici. Le divergenze fra le due posizioni sono però evidenti.

La linea di Harris non appare molto diversa da quella della attuale amministrazione, con una chiara attenzione alle politiche ambientali e agli strumenti normativi volti a facilitare la lotta a cambiamento climatico e la promozione della transizione energetica. La posizione di Trump (confermata dall’esperienza della sua prima amministrazione) è ben riassunta nello slogan “drill, baby, drill” popolarizzato alla convention repubblicana di Milwaukee ma già da tempo cavallo di battaglia dell’ex Presidente.
Questioni di sfumature
In questi termini, quello che si profila appare uno scontro ‘muro contro muro’; uno scontro che, tuttavia, se da una parte risponde alle logiche di una elezione fortemente polarizzata, dall’altra rispecchia solo in parte la realtà delle cose. La differenza concreta fra le due possibili presidenze sarà soprattutto questione di sfumature. I provvedimenti introdotti dall’amministrazione Biden – in particolare quelli contenuti nel CHIPS and Science Act, nella Bipartisan Infrastructure Law e, soprattutto, nell’Inflation Reduction Act (IRA) – hanno delineato un sistema di incentivi per le azioni di decarbonizzazione cui difficilmente il mondo delle imprese vorrà rinunciare. D’altro canto, negli ultimi anni, il settore Oil&Gas ha visto la sua importanza lievitare a livelli inaspettati sino a poco tempo prima, anche in questo caso con l’attivo sostegno della Casa Bianca, che su diversi punti ha ribaltato in modo sostanziale la linea marcatamente ambientalista abbracciata durante la campagna elettorale del 2020.
Di fatto, le posizioni ‘verdi’ di Harris (sostenute anche nella veste di Vicepresidente) si sono ammorbidite non poco con la sua discesa in campo. Poco tempo dopo l’investitura ufficiale a candidato democratico, per esempio, ha annunciato di non volere più mettere al bando – se eletta – la tecnica del fracking, come pure diverse volte aveva affermato di volere fare in passato. Donald Trump appare più rigido nelle sue posizioni a favore dei combustibili fossili, la deregulation e il ridimensionamento degli interventi a favore delle energie rinnovabili; una strategia che – a suo dire – dovrebbe permettere di ridurre il costo dell’energia, portare a raggiungere la “dominanza energetica” e accrescere la competitività dell’economia statunitense soprattutto nella sfida con il rivale cinese. Nonostante questo, attaccare frontalmente la normativa dell’era Biden appare difficile anche per lui, soprattutto se – come nel caso dell’attuale amministrazione – non potrà contare su una maggioranza chiara all’interno del Congresso.
È vero che Trump potrebbe ottenere un risultato simile agendo per via amministrativa, fra l’altro intervenendo sugli standard oggi in vigore, rimpiazzando i vertici delle agenzie di tutela ambientale, modificando l’allocazione delle risorse fra le diverse poste di bilancio e velocizzando l’iter di approvazione dei vari progetti avanzati sia in tema di prospezione ed estrazione, sia di nuove infrastrutture. Questi sviluppi (in parte delineati della c.d. ‘Agenda 47’) appaiono tutti prevedibili e in linea con la strategia adottata dall’ex Presidente negli anni del primo mandato. Anche in questo caso appare, tuttavia, difficile pensare a un effettivo stop al processo di transizione avviato dal suo predecessore, non fosse altro che per le ricadute positive che questo ha avuto (e che sembra destinato ad avere in futuro) in termini di crescita e di occupazione, due issues cui il candidato repubblicano è sempre stato particolarmente sensibile.
Stati Uniti: una superpotenza negli idrocarburi
È tuttavia difficile pensare anche che gli Stati Uniti decidano di rinunciare al ruolo che negli ultimi anni hanno assunto sul mercato globale dell’Oil&Gas. Il 2023, nonostante le iniziative della Casa Bianca, è stata un anno record per la produzione petrolifera nazionale e il 2024 si avvia ad essere altrettanto positivo. Nel 2023, gli Stati Uniti hanno affermato il ruolo di principali esportatori di LNG a livello globale. Un risultato che pare destinato a ripetersi nel 2024.
Nonostante la moratoria sui nuovi progetti di esportazione introdotta dall’amministrazione lo scorso gennaio, le previsioni indicano la capacità del settore in crescita e la possibilità che entro il 2028 essa sia più che doppia rispetto al 2024. Se dovesse concretizzarsi, questo sviluppo rafforzerebbe in maniera consistente la posizione di Washington in un settore in cui – nonostante le opinioni discordanti – le attese a medio termine degli operatori sono per un aumento significativo della domanda, specialmente da parte dei mercati asiatici.
Al di là della valenza economica, anche le ricadute politiche sono tali che nessuno dei due candidati (nonostante le divergenze riguardo al posizionamento degli Stati Uniti sulla scena internazionale) può permettersi di ignorarle. Le capacità di esportazione statunitensi, per esempio, sono state fondamentali, all’epoca dell’invasione russa dell’Ucraina, nel sostenere la scelta europea di interrompere le forniture da Mosca.
Nel marzo 2022, fra l’altro, l’amministrazione Biden si è impegnata a garantire la disponibilità di almeno 15 miliardi di metri cubi (bcm) di LNG statunitense all’Europa, mentre la Commissione europea, dal canto suo, ha accettato di lavorare con gli Stati membri al fine di assicurare una “una domanda stabile di LNG statunitense pari a circa 50 bcm/anno aggiuntivi fino al 2030”. Sia nel 2022, sia nel 2023, questo valore è stato ampiamente superato. Esso ha raggiunto rispettivamente 56 e 63 miliardi di metri cubi, portando le importazioni di LNG statunitensi al 50% circa del totale europeo.
Le implicazioni per il teatro dell’Asia-Pacifico sono altrettanto importanti. La crescita della domanda in questo mercato (legata anche ai processi di transizione in corso) sta mettendo rapidamente sotto pressione la capacità dei produttori locali (soprattutto Australia, Indonesia, Malesia e Brunei, alcuni dei quali già alle prese con le sfide della propria transizione interna) di soddisfarla.
Tenuto conto del ruolo che la regione riveste nel mercato globale dell’energia, la capacità degli Stati Uniti di riempire il vuoto che questa situazione crea può contribuire a rafforzare la loro posizione anche a livello politico, sostenendo l’azione di contenimento dell’ascesa della Cina. Fra l’altro, le forniture statunitensi risultano meno vulnerabili ad eventuali picchi di instabilità nel Mar cinese meridionale e nello stretto di Taiwan rispetto a quelle provenienti dai paesi del Golfo, che coprono oggi gran parte della domanda di petrolio e gas naturale di realtà come Giappone o Corea del Sud, storici alleati di Washington nella regione.
Il modo in cui questo intreccio di considerazioni si tradurrà in politiche concrete resta aperto alla speculazione. Per esempio, una politica internazionale come quella di un’eventuale amministrazione Trump, basata (come appare probabile) sul disimpegno selettivo dai teatri considerati meno rilevanti, ridimensionerebbe in modo significativo l’utilità della leva energetica ai fini del rafforzamento della posizione del paese. Nel campo opposto, le divisioni che attraversano il Partito democratico intorno al tema delle politiche ambientali potrebbero condizionare in maniera rilevante le scelte di una eventuale amministrazione Harris, nonostante la posizione cauta assunta sinora dal Vicepresidente e i tentativi fatti per rassicurare l’industria estrattiva. Significativamente, proprio su questo punto si è concentrata buona parte degli attacchi repubblicani, che hanno ripetutamente evidenziato l’ostilità di Harris nei confronti del settore all’epoca della corsa alla nomination del 2020, poi perduta a vantaggio di Joe Biden.
Tutti i limiti della Casa Bianca
Non bisogna, infine, dimenticare che il Presidente, nonostante gli ampi poteri di cui gode, non è ‘un uomo solo al comando’, nemmeno nel caso di personalità ‘debordanti’ come Donald Trump. Come hanno dimostrato – da ultimo – le difficoltà sperimentate da Joe Biden negli ultimi quattro anni, la possibilità per la Casa Bianca di portare avanti la propria politica dipende, in larga misura, dalla capacità di instaurare un rapporto di collaborazione con il Congresso.
Nello scenario attuale, questo è un fatto tutt’altro che scontato, così come è tutt’altro che scontato il fatto che anche un Congresso espressione dello stesso partito del Presidente appoggi in toto le scelte di quest’ultimo. L’esperienza dell’amministrazione Biden e le difficoltà incontrate nel fare adottare pezzi importanti di legislazione (per esempio, il Bipartisan Infrastructure Act, uno snodo chiave del programma con cui la Casa Bianca contava di porre rimedio alle ricadute economiche della pandemia COVID-19) sono un buon esempio anche a questo proposito.
Il margine d’azione del nuovo Presidente dipenderà, quindi, molto dalla costellazione di potere che uscirà dalle elezioni e dagli equilibri che emergeranno fra la Casa Bianca e il Congresso, fra le due Camere di questo, fra i due partiti maggiori e – al loro interno – fra i diversi gruppi che li compongono. Una consistente legittimazione in termini di voto popolare offrirebbe un sostegno ulteriore alle sue scelte politiche. Tuttavia, sia nel caso del Congresso, sia in quello del Presidente la situazione appare, nella migliore delle ipotesi, incerta.
Secondo le previsioni, il Partito repubblicano dovrebbe riuscire a mantenere il controllo della Camera dei rappresentanti e acquisire quasi certamente quello del Senato, assumendo il pieno controllo del Legislativo. La corsa presidenziale appare, invece, molto più incerta, con i due candidati ancora testa a testa e con la concreta possibilità che il 2025 si apra – oltre che su una scena di accresciuta polarizzazione – sullo sfondo tensioni istituzionali ancora più complesse di quelle attuali.
Stando all’entità dei finanziamenti sinora erogati, il mondo dei fossili sembra avere scommesso – in maniera, tutto sommato, comprensibile – su una vittoria di Trump, contando non solo su una legislazione complessivamente più favorevole alle proprie attività, ma anche sulla possibilità di un alleggerimento dell’attuale regime fiscale, in linea con quella che è la politica del candidato repubblicano in materia di tassazione. Di contro, Harris appare ostacolata sia dalla fama negativa che si è costruita in passato, sia dalla vaghezza delle sue posizioni attuali. Il timore degli operatori, degli osservatori e dell’opinione pubblica (un timore sintetizzato nella posizione del candidato repubblicano alla vicepresidenza, J.D. Vance, secondo cui “una guerra alla tradizionale energia americana è una guerra all’American standard of living”) è che il perdurare di questa incertezza finisca per penalizzare gli investimenti, tarpando le ali al settore estrattivo e rigettando gli Stati Uniti alla condizione di vulnerabilità dei primi anni Duemila.
L’argomento ha una sua rilevanza in una campagna elettorale in cui la dimensione identitaria è forte. Il frame narrativo della ‘battaglia per l’anima dell’America’ che ha caratterizzato il voto del 2020 ed è riaffiorato nelle elezioni di midterm del 2022 non sembra, infatti, avere perso la sua validità e si riflette anche sui temi dell’energia e dell’ambiente. Probabilmente, anche in questo campo l’affiliazione (o la vicinanza) a uno dei due schieramenti influirà sulle scelte degli elettori più delle proposte concrete dei due candidati. Il grande interrogativo resta comunque quello sulla capacità della nuova amministrazione (qualunque sarà il suo colore politico) di ‘mettere a terra’ tali proposte.
Se a livello epidermico le posizioni appaiono chiare, sul piano pratico diversi aspetti importanti restano da definire, così come da definire resta il quadro internazionale entro il quale l’azione della nuova amministrazione si dovrà sviluppare e che negli anni passati ha giocato un ruolo centrale nel pilotare gli sviluppi dell’Oil&Gas statunitense.
Gianluca Pastori è Professore Associato in Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Università Cattolica del Sacro Cuore


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