8 Ottobre 2024

Vietare la pubblicità dei combustibili fossili, più fiaba che numeri

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L’Aia ha deciso di vietare dal 1° gennaio 2025 qualsiasi pubblicità dei combustibili fossili. Qual è il senso di questa iniziativa? Parrebbe l’ennesima manifestazione di una visione manichea della realtà radicata nell’ignoranza dei numeri che cerca soluzioni semplici a fenomeni complessi.

Qual è il senso della recente iniziativa avviata nella città olandese de L’Aia tesa a vietare dal 1° gennaio 2025 qualsiasi pubblicità dei combustibili fossili? Come possiamo interpretarla? Si tratta di una manovra di policy che spera di ridurre le emissioni di carbonio diminuendo l’esposizione visiva dei cittadini alla pubblicità dei fossili? Oppure è la risposta a un’esigenza di carattere etico che impone alla coscienza collettiva della città l’allontanamento dai fossili quale simbolo del male?

Oppure è un’operazione d’immagine della città? Oppure, infine, si tratta semplicemente di una risposta all’invito del Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres che ha recentemente esortato “tutti i paesi a vietare la pubblicità delle aziende di combustibili fossili e (…) i media e le aziende tecnologiche a smettere di accettare pubblicità sui combustibili fossili”.

Non solo, Guterres si è spinto oltre sollecitando “una riduzione del 30% nella produzione e nell’uso di combustibili fossili a livello mondiale entro il 2030”.

I padrini del caos climatico e la visione manichea della realtà

Forse in ultimo la decisione della città de L’Aia è l’esito di una combinazione delle diverse interpretazioni ipotizzate sopra. Si spera che essa sia una mera decisione tecnica, di policy, tesa in qualche modo a ridurre le emissioni di anidride carbonica. Forse essa sopravvaluta il peso della pubblicità, oppure no.

Al di là del risultato sarebbe importante che la decisione fosse il risultato di una riflessione seria e tecnica, non ascrivibile a un manicheismo sempre più diffuso. Ipotesi che, però, non si può escludere.

Il manicheismo può essere descritto come una forma di pensiero che interpreta i combustibili fossili quale elemento tossico e velenoso, quasi diabolico, responsabile in toto dei cambiamenti climatici presenti e futuri, una specie di elemento perverso dal quale è bene prendere le distanze prima possibile e in ogni modo possibile.

La cartina di tornasole dell’esistenza di tale weltanschauung è insita nella ripetuta identità proposta tra combustibili fossili e tabacco. Entrambi gli elementi sono nocivi per la salute umana, entrambi sono espressioni di potenti lobby industriali che cercano in tutti i modi di preservare l’esistenza del proprio business anche a costo di una crisi climatica che minaccia il pianeta, corrispettivo – per rimanere nell’identità fossili-tabacco – del cancro ai polmoni.

Lo stesso Segretario Generale dell’Onu, d’altra parte, favorisce questa interpretazione quando parla dell’industria fossile come dei “padrini del caos climatico (che) incassano profitti record e si abbuffano di trilioni di dollari in sussidi finanziati dai contribuenti”.

Il modello sociopsicologico delle fiabe

Di fronte a tale interpretazione manichea della realtà si sollevano diverse riflessioni.

La prima è di carattere sociopsicologico e rimanda al modello classico della fiaba basato sulla dialettica buono-cattivo, bene-male, eroe positivo-eroe negativo. Da Esopo ai Fratelli Grimm, da Charles Perrault a Hans Christian Andersen, questo schema ha nutrito nei secoli la psiche di generazioni di bambini e non stupisce che sia alla fine penetrato nei cromosomi della società, e si riproponga periodicamente quale strumento di interpretazione e soluzione dei problemi.

Esso è presente tanto nelle interpretazioni della storia e dei fenomeni economici – cattivi sono il capitalismo, il potere in senso lato, i ricchi, gli Stati Uniti… l’industria fossile e lo sporco petrolio – quanto nella lotta politica, soprattutto oggi, in tempo di populismo.

Questa interpretazione sbrigativa dei fenomeni è, proprio in virtù del suo semplicismo, molto attraente: non indugia in analisi dettagliate, interpretate quali perdite di tempo, soprattutto essa si tiene alla larga dal suo nemico storico: il numero.

La demonizzazione del numero

Per questa religione della semplificazione estrema, i numeri rappresentano una specie di anticristo dal quale nulla di positivo può emergere. Il numero è intrinsecamente sospetto, la sua stessa natura è infida perché porta il confronto su un terreno distante dai nobili ideali tesi alla salvezza del pianeta: da una parte sta la spiritualità dell’ideale, dall’altra la grettezza dei numeri.

Mutatis mutandis, essi sono per l’ambientalismo dogmatico ciò che il “latinorum” era per Renzo Tramaglino. Con la differenza non banale che ne “I promessi sposi” il riferimento di Don Abbondio al latino è effettivamente teso a confondere le acque, laddove nella questione della transizione energetica i numeri portano chiarezza e fanno capire.

Da questa implicita demonizzazione del numero deriva l’ignoranza dei dati, il rifugiarsi nello schema manicheo della dialettica bene-male, eroe-cattivo, in virtù della quale la mancata soluzione di un problema risiede, in primis, in un deficit della volontà che impedisce azioni decise e risolutive. La responsabilità di questo deficit è racchiusa tutta nell’archetipo del “cattivo” che grazie al suo strapotere, spesso lobbistico, ostacola la via del bene. Eliminato il cattivo, il problema è risolto: la via del bene è finalmente accessibile.

La società come organismo vivente (di cui i fossili sono la spina dorsale)

Sarebbe davvero bello se le cose stessero in questi termini. Purtroppo, la realtà è più complessa. Come direbbe il sociologo Herbert Spencer, la società è un organismo vivente, i cui organi e le cui funzioni sono interconnessi. I combustibili fossili non possono essere interpretati semplicisticamente come una massa tumorale che minaccia l’organismo sociale, rimossa la quale tutti i problemi sono risolti. È un esito della storia che, dalla rivoluzione industriale in poi, i fossili siano diventati la spina dorsale e l’architrave dell’organismo sociale.

Oggi essi rappresentano l’80% del consumo energetico mondiale, percentuale che si è mantenuta stabile negli ultimi trent’anni. Essi, dunque, sono consustanziali all’economia moderna, che in ultimo rappresenta un paradigma industriale poggiante sui fossili. Questa è la realtà oggi e bisogna riconoscerla. Non trattandosi di una massa tumorale, non è possibile purtroppo un’operazione che asporti il male, piuttosto è l’organismo sociale nel suo complesso che va modificato.

Ma ciò richiede tempo, più di quello previsto dagli scenari che ipotizzano un annullamento delle emissioni nel giro di 3-4 decenni (su questo rimandiamo al recente lavoro con Stefania Migliavacca pubblicato sull’ultimo numero della rivista ENERGIA).

Le fossili come il tabacco?

La seconda riflessione concerne il parallelismo fossili-fumo. Certo, vi è qualche similitudine circa i ritardi nel riconoscere la criticità del fenomeno: da una parte la relazione fumo-cancro, dall’altra quella fossili-carbonio-cambiamento climatico. In entrambi i casi sono passati decenni prima che il nesso fosse riconosciuto ed emergesse un’azione tesa a risolvere il problema. Indubbiamente si è perso tempo prezioso in dibattiti sterili, laddove la voce della scienza era chiara e netta.

Al di là di ciò, permane una differenza immensa: il fumo è tossico e nocivo per la salute umana, non le ha mai apportato beneficio. Al contrario, i combustibili fossili hanno consentito il decollo delle economie moderne dalla rivoluzione industriale in poi, portando milioni di persone fuori dalla povertà, consentendo loro di scaldarsi, muoversi, cibarsi adeguatamente, vivere una vita decente. In una parola essi hanno portato benessere.

Certamente oggi si pone un problema di esternalità associate a tale creazione di benessere, ed esso va affrontato e risolto. Demonizzare i fossili è, però, operazione inutile oltre che – per le ragioni appena dette – non rispondente a verità.

La pubblicità e l’interconnessione tra i fenomeni sociali

Il terzo punto sul quale riflettere, in qualche modo legato alla connessione tra i fenomeni sociali, riguarda i limiti del divieto di pubblicità. È spontaneo chiedersi perché limitarsi ai combustibili fossili e non includere anche il settore automotive, che letteralmente si alimenta di fossili. E che dire del cemento e dell’acciaio, o anche dell’elettricità stessa, per non parlare della plastica e dei fertilizzanti, tutti oggi strettamente interconnessi ai combustibili fossili?

È chiaro, che essendo i combustibili fossili il pilastro fondativo dell’attuale sistema economico, vietare la pubblicità implica, a rigor di logica, il potenziale divieto di pubblicità di enne altri prodotti. Dover fermarsi?

L’ultima riflessione suscitata dalla decisione olandese, in qualche modo legata all’invito di Antonio Guterres, concerne i numeri. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha posto il tema dei “trilioni di dollari in sussidi finanziati dai contribuenti” di cui si abbuffa l’industria fossile e auspicato l’obiettivo di ridurre del 30% entro il 2030 la produzione e il consumo di combustibili fossili.

Sussidi ai combustibili fossili: cosa dicono i numeri?

Cosa dicono i numeri sui sussidi ai combustibili fossili? I dati del Fondo Monetario Internazionale restituiscono una realtà più complessa e mostrano come gran parte dei sussidi siano erogati da paesi che producono ed esportano fonti fossili, oppure nell’ambito di economie emergenti.

Arabia Saudita, Russia, Indonesia, Iran sono tra i maggiori erogatori di sussidi, a grande distanza comunque dalla Cina che sostiene la sua economia monstre con quasi 300 miliardi di dollari di sussidi.

Certo, vi è una qualche erogazione anche in economie avanzate, quali ad esempio la Germania e la Corea del Sud, ma il grosso rimane nei paesi sopra citati. Basti pensare che gli Stati Uniti, spesso citati quale campo d’azione di possenti lobby, nel 2022 hanno erogato solo 3 miliardi di sussidi ai combustibili fossili.

Alla luce di questi dati, dovrebbe essere chiaro che la questione dei sussidi è molto più ampia e coinvolge due dimensioni cruciali della questione della transizione, ovvero il funzionamento delle economie dei paesi produttori e lo sviluppo di quelli emergenti. Siamo di fronte a realtà economiche in cui l’ordine di priorità è assai diverso rispetto alle economie mature che oggi diffusamente sostengono l’idea di un annullamento delle emissioni in pochi anni.

Paesi quali la Cina, l’Indonesia o l’Iran sono su un punto del sentiero di sviluppo molto distante da quello occidentale, ed è dunque comprensibile che la questione ambientale assuma un peso assai minore rispetto ai paesi più ricchi. Analogamente è intuibile che un paese ricco di risorse minerarie – si pensi alla Arabia Saudita – sia principalmente interessato al loro sfruttamento perché da esse dipende la propria crescita economica.

Vietare la pubblicità dei combustibili fossili
Fonte: elaborazione dell’autore su dati IMF

– 30% fossili al 2030?

Un discorso analogo può essere fatto circa l’obiettivo di ridurre almeno del 30% la produzione e il consumo di combustibili fossili entro il 2030: non possiamo non avere il sospetto che chi propone un obiettivo del genere non ne abbia approfondito in alcun modo l’aspetto quantitativo.

Nella figura seguente riportiamo l’andamento mondiale dei consumi energetici dal 1990 ad oggi. Ora, ridurre di almeno il 30% il consumo delle fonti fossili entro il 2030 implica il rapidissimo decremento – compensato da un ancor più brusca impennata delle altre fonti (rinnovabili + nucleare) – mostrato nel grafico. Riteniamo che l’irrealismo di questo scenario sia già ben documentato dalla semplice visione della figura.

Vietare la pubblicità dei combustibili fossili
Fonte: elaborazione dell’autore su dati IEA

Per vederlo meglio citiamo qualche numero: le fonti fossili che, a parte la flessione del 2020 dovuta al Covid, hanno un andamento tendenzialmente crescente o al massimo stabile, dovrebbero magicamente contrarsi al ritmo di circa il 6% all’anno. Analogamente, le altre fonti dovrebbero crescere di circa il 12% all’anno compiendo un’espansione di cui non vi è alcuna traccia negli anni precedenti.

Tutto ciò dovrebbe avvenire, considerando che tra qualche mese siamo nel 2025, in sei anni.

Si badi che abbiamo assunto, ottimisticamente, che i consumi totali di energia non crescano ma, al contrario, si riducano di circa il 4% tra il 2020 e il 2030, come prevede lo scenario NZE della Iea.

Gli obiettivi irrealistici e l’ignoranza dei numeri

Qual è il senso – ci chiediamo – di questa specie di operazione a cuore aperto dell’economia mondiale che andrebbe a sostituire in pochissimi anni il 30% dei fossili con un 30% addizionale di rinnovabili e nucleare? Come si fa a ritenere che essa sia possibile? Perché proporla se non vi è alcuna possibilità che essa possa essere realizzata?

Non abbiamo, purtroppo, una risposta convincente a queste domande. Non possiamo però fare a meno di pensare che proposte del genere siano radicate nell’ignoranza dei numeri. La stessa ignoranza che ha indotto gli attivisti di Ultima Generazione a incollarsi alle piste di quattro aeroporti tedeschi (Berlino, Colonia-Bonn, Norimberga e Stoccarda) lo scorso Ferragosto, al fine di persuadere il governo tedesco ad assumere un obiettivo di eliminazione dei consumi fossili entro il 2030.

È fattibile? Con cosa sostituiremo il 77% dei consumi energetici tedeschi oggi soddisfatti dalle fonti fossili? Quali sono le implicazioni per l’occupazione? Con quali strumenti realizzare questa rivoluzione energetica? Quali sono i costi? Queste sono alcune delle tante domande che si pongono, e che dovrebbero già avere una risposta prima che la proposta venga fatta. Siamo pressoché certi che non sia così poiché, da sempre, la fiaba seduce molto più del numero.


Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA



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