25 Novembre 2024

Non solo Cop29: è il meccanismo delle Cop che sta fallendo

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Mentre si discute se Cop29 sia stata un totale o un mezzo fallimento, la crescita delle emissioni nel 2024 ci ricorda che tutto il percorso delle Cop sta mancando l’obiettivo finale.

Il contesto non era certo favorevole, mancava slancio e ottimismo: venti di guerra, rischio atomico, ritorno sulla scena di Trump (si veda Cop29 di Baku: come ci arriviamo e cosa aspettarci?, ndr). È su questo sfondo che i temi ricorrenti delle Cop si sono intrecciati come fili di un gomitolo confuso (si veda Fossili, finanza, mercati del carbonio: l’eterno ritorno delle Cop, ndr), per poi confluire nella dichiarazione finale che ha cercato di mettere un po’ di ordine nel caos che, come da tradizione, aveva dominato nelle due settimane di dibattiti.

S’intravede un’accelerazione tenue sul fronte della finanza climatica, che era l’oggetto principale del contendere della Cop29 di Baku.

Si partiva da 100 miliardi di dollari annui. I paesi meno abbienti chiedevano 10 volte tanto o addirittura 13, laddove i paesi ricchi – che poi ricchi non sono, dovendo fare i conti al proprio interno con considerevoli sacche di povertà – frenavano: 200-300 miliardi massimo, diceva l’Europa secondo le indiscrezioni che erano filtrate sul sito Politico.eu.

Finanza climatica: la Cop lancia (ancora una volta) la palla in avanti

Oltre al quantum si poneva la questione del come: quali elementi dovrebbero comporre la cifra? Fondi pubblici, fondi privati, finanziamento a fondo perduto o prestiti che creerebbero ulteriore debito per i paesi in via di sviluppo?

Tutte queste domande hanno danzato per giorni sul palcoscenico della Cop29 di Baku per poi spegnersi nella dichiarazione finale che, in definitiva, paga l’obiettivo di accontentare tutti con la moneta della genericità: all’articolo 8 si afferma che i paesi abbienti dovranno rendere disponibili a favore di quelli in via di sviluppo 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Poi, nel solco di una tradizione di lunga data delle Cop, all’articolo 27 si introduce la “Baku to Belém Roadmap to 1.3T”, per tendere nella prossima Cop30 di Belem, in Brasile, al valore inizialmente richiesto dai developing countries.

Si potrebbe dire che siamo di fronte a un fallimento o comunque a un risultato magro. Oppure, inforcati gli occhiali dell’ottimismo, si potrebbe vedere il bicchiere mezzo pieno e dire che 300 miliardi sono tre volte l’ammontare dal quale si era partiti. Comunque la si veda, va riconosciuto che si tratta di una mera dichiarazione sulla carta.

La distanza tra parole e numeri, retorica e azione continua ad essere tratto distintivo delle Cop

Il grande problema delle Cop era, è e – temiamo – continuerà ad essere quello della distanza tra parole e numeri, retorica e azione. La storia purtroppo dimostra che le dichiarazioni delle Conferenze delle Parti non hanno il potere di produrre azioni efficaci.

Forse ciò è conseguenza della debolezza intrinseca del diritto internazionale, eroe tanto bello quanto fiacco di fronte alla realpolitik delle sovranità nazionali. Questa pochezza operativa del diritto internazionale esiste certamente, ma più di essa il dissidio tra parole e azioni è figlio di qualcosa di più ampio, che potrebbe essere definito l’autonomia della Storia.

Sì, certo, animati da buone intenzioni gli umani si incontrano a Baku, Dubai, Parigi, Copenaghen, Kyoto e si danno da fare. In realtà, essi simulano sulla carta un potere che non hanno. La carta è come la mappa di un risiko sulla quale si combatte una guerra che non esiste, o che esiste solo nella mente di chi sta muovendo fittizi carri armati di plastica.

Si può discutere se si sia di fronte a un wishful thinking pieno, oppure se esso sia affievolito da un barlume di consapevolezza sicché, alla fine, chi gioca la partita del risiko sa già in partenza che si tratta di un gioco. Un po’ l’uno un po’ l’altro, probabilmente.

Certo, nel momento stesso in cui consegniamo queste riflessioni alla carta, ci rendiamo conto di quanto esse siano amare. Ma come non farle dopo 25 anni di negoziati sul clima che non hanno invertito di un epsilon il corso delle emissioni?

Il dominus reddito

Su tutto regna il dominus reddito: il Pil cresce, le emissioni crescono. Il Pil diminuisce, le emissioni diminuiscono. Questa è la legge che regna a livello globale e questo ci dicono i dati di oltre un secolo.

Non vi è un timone della nave e non vi è un capitano in grado di modificarne la rotta: quell’intreccio indissolubile di economia, tecnologia, politica che è la Storia se ne infischia di tutte le dichiarazioni di Sapiens e della sua pretesa – umile e arrogante nello stesso tempo – di modificarne il corso.

Oltre al dato sulle emissioni – sul quale torneremo tra un attimo – citiamo qui quello relativo alla finanza climatica: i 13 anni intercorsi tra la decisione di finanziare la lotta al cambiamento climatico dei paesi in via di sviluppo con 100 miliardi di dollari all’anno – presa nella conferenza di Copenaghen nel lontano 2009 – e il 2022, anno nel quale finalmente l’obiettivo viene raggiunto.

Quanti anni occorreranno per raggiungere i 300 miliardi della Cop29 di Baku? Oppure: quanti anni occorreranno per riempire di moneta sonante il fondo Loss and Damage deliberato due anni fa a Sharm el-Sheik? Che senso hanno queste deliberazioni se poi non vengono rispettate? Rappresentano un’aspirazione, un’indicazione di massima, una volontà simbolica?

Le emissioni nel 2024

Ma più di tutto è il dato sulle emissioni che induce al pessimismo. Sinceramente, dopo la debole crescita dello scorso anno, avevamo sperato di vedere una diminuzione nel 2024. Invece siamo stati gelati dai dati che Global Carbon Budget ha diramato, come da tradizione, nei primi giorni della Conferenza (si rimanda anche all’analisi che ne fa CarbonBrief).

Cop29

Questi dati vanno letti con attenzione perché offrono numerosi spunti di riflessione. Cercheremo qui di seguito di elencare più importanti:

  • Le emissioni da uso del territorio e foreste hanno certamente minor peso di quelle derivanti dalla componente fossile, tuttavia esse possono vanificare miglioramenti nell’uso dell’energia. Così, secondo Global Carbon Budget, nel 2024 le emissioni di gas serra cresceranno del 2% più come effetto della componente relativa alle foreste (+1,2%) che di quella fossile (+0,8%). In particolare, la siccità avrebbe favorito gli incendi e, dunque, le emissioni. Ciò contraddice il trend in diminuzione della componente uso del territorio.
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  • A livello pro-capite, le emissioni registrano una sostanziale stabilità nell’ultimo decennio, cosa che si traduce – a fronte di un aumento della popolazione – in una crescita complessiva delle emissioni globali. In altre parole, non assistiamo a un progresso dell’impronta carbonica individuale, a differenza di quanto accade per l’intensità carbonica del reddito che fa registrare una netta diminuzione negli anni: siamo in grado di decarbonizzare il reddito ma non gli individui, e poiché sia il reddito che la popolazione crescono, ecco che le emissioni globali lievitano.
  • Le emissioni cinesi sono previste in crescita di pochissimo, lo 0,2%, anche a ragione della crescita del Pil meno pronunciata rispetto agli anni scorsi, tanto da far fatica a raggiungere il target annuo del 5%. Nonostante ciò, stupisce leggere che il contributo cinese alle emissioni globali sia pari ormai al 32%, laddove solo qualche anno fa era intorno al 27%. Non solo: la Cina ha raggiunto l’Europa in termini di emissioni cumulate, ovvero la straordinaria crescita cinese ha fatto sì che il grado di responsabilità nella questione climatica – che questo paese ha raggiunto in pochi anni – sia pari a circa due secoli di storia industriale europea. Ciò è preoccupante in prospettiva poiché vi sono altri paesi tra quelli emergenti che potrebbero ripetere il percorso della Cina.
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  • Le emissioni degli Stati Uniti e quelle dell’Unione Europea sono previste in flessione rispettivamente dello 0,6% e del 3,8%. Il dato non deve trarre in inganno perché l’economia americana è prevista in crescita nel 2024 del 2,8% mentre quella europea solo dello 0,8%, e ciò spiega in larga misura la maggiore riduzione dei gas serra in Europa.
  • Il peso di Usa e Ue è ormai sceso a livelli assai distanti da quello cinese. Esse rappresentano rispettivamente il 13% e il 7% del totale mondiale. L’India con il suo 8% ha ormai superato l’Unione Europea.
  • Il crollo delle emissioni europee nel 2023 pari all’8,3% aveva indotto all’ottimismo circa il raggiungimento del target net zero. Infatti, se si ipotizza di ridurre le emissioni europee del 75% nel 2050 – con il rimanente 25% compensato da forestazione e/o Ccs – allora sarebbe necessaria una riduzione annua pari al 4,8%, di gran lunga più ambizioso del -2,4% del quadriennio 2018-2022. Il dato di quest’anno ci fa capire che quello dello scorso anno era un’eccezione, fortemente viziato dagli alti prezzi energetici indotti dalla crisi Ucraina, tanto da limitare la crescita del Pil allo 0,4%, la metà del 2024.
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  • Al di là di Cina e India, che certo sono importanti, la crescita globale delle emissioni dipende fortemente dall’espansione dei rimanenti paesi in via di sviluppo. Se infatti ripartiamo le emissioni mondiali su cinque grandi componenti – ovvero Cina, India, Usa, Ue e Resto del Mondo – vediamo come quest’ultima sia nettamente preminente con un contributo pari al 38%. Dunque, dunque, in prospettiva, più di Cina ed India saranno gli altri paesi in via di sviluppo a contribuire alla crescita della concentrazione della CO2 nell’atmosfera.
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Riteniamo che questi dati sulle emissioni siano molto importanti e non abbiano destato sufficiente interesse negli scorsi giorni, coperti dal rumore di fondo della Cop29.

Si è molto parlato, ad esempio, dei progressi nell’ambito dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che finalmente sarebbe stato affinato in modo da consentire il decollo di un mercato internazionale dei crediti di carbonio. Vedremo se le parole si tradurranno in azione, o se piuttosto non occorrerà attendere un altro decennio di negoziazioni prima di vedere la piena operatività di un carbon market mondiale.

Oltre le Cop

Oggi, più dello sciabordare delle parole delle Cop, ci sembra rilevante l’ennesima conferma dell’aumento delle emissioni. A distanza di 9 anni dall’Accordo di Parigi, ciò che abbiamo di fronte è l’impotenza di tale trattato a flettere verso il basso la curva delle emissioni.

Questo è l’obiettivo finale del Paris Agreement ed esso viene sistematicamente fallito: è innegabile che qualcosa non sta funzionando. Occorre riconoscere questo dato di fatto e da esso partire, per una riflessione più ampia sul meccanismo stesso delle Cop (si veda il dibattito Oltre le Cop ospitato su ENERGIA, ndr).


Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


Foto: Unsplash

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