Che impatto avrà il ritorno di Trump sulle politiche energetiche ed ambientali degli Stati Uniti? Proponiamo le opinioni di Gaetano Di Tommaso del Roosevelt Institute for American Studies dall’ultimo numero di ENERGIA e di Gianluca Pastori dall’ultima analisi della Rubrica di Geopolitica dell’Energia.
“Le intenzioni di Trump in materia ambientale sono chiare. Trump ha più volte definito il cambiamento climatico un’invenzione, minimizzando il rischio derivato dall’innalzamento del livello del mare, ha criticato l’energia eolica, dicendo di «odiarla», e ha messo in dubbio l’uso di batterie come fonte di alimentazione per mezzi di trasporto (10). A livello pratico, durante il suo mandato, Trump approvò concessioni per la ricerca di petrolio nell’Arctic National Wildlife Refuge in Alaska (in seguito bloccate da Biden), autorizzò la costruzione dell’oleodotto Keystone XL (anche questa poi fermata da Biden), e smantellò circa 100 norme ambientali riguardanti la qualità dell’aria, dell’acqua e i limiti per le sostanze chimiche tossiche, depotenziando l’Environmental protection agency (Epa) (11).
Drill, Baby, Drill
Il ritorno di Trump significherebbe senza dubbio un ritorno a questa aggressiva deregolamentazione a favore dell’industria estrattiva, con il motto «Drill, Baby, Drill» già riproposto in campagna elettorale, questa volta giustificato anche in chiave antinflazionistica. Trump ha infatti promesso di ridurre i costi dell’energia aumentando la produzione, sostenendo, tra l’altro, di aver reso il paese indipendente dal punto di vista energetico durante il suo primo mandato. Come in molti altri casi, le parole di Trump necessitano però almeno di una precisazione. Se «indipendenza energetica» significa produrre più energia di quanta se ne consuma, allora sia Trump sia Biden possono rivendicare questo risultato. Ma se si intende l’azzeramento delle importazioni di petrolio, ciò non è stato raggiunto né lo sarà nel prossimo futuro. Gli impianti di raffinazione statunitensi sono progettati per processare un tipo di greggio diverso da quello estratto oggi nel paese tramite fratturazione idraulica, vero motore del boom di produzione domestica di questi anni. L’anno scorso, ad esempio, per alimentare tali raffinerie, gli Stati Uniti hanno dovuto importare ben 8,5 milioni di barili di petrolio al giorno. Nel frattempo, ne hanno esportato circa 10 milioni di barili al giorno (12). Il paese continuerà quindi a dipendere dal greggio estero e, dato che il mercato del petrolio è globalizzato, il prezzo dell’energia (e dei beni di consumo) rimarrà esposto a fluttuazioni di prezzo dovute a crisi o instabilità in altre aree del mondo.
Una soluzione parziale sarebbe appunto quella di ridurre la dipendenza dal petrolio, ma questo richiederebbe ulteriori investimenti in energie rinnovabili. Al contrario, Trump ha già annunciato che intende svuotare l’Ira e l’Iija, dirottandone o bloccandone i finanziamenti (13).
L’ostacolo repubblicano
Paradossalmente, a contrastare queste intenzioni potrebbero essere proprio i rappresentanti repubblicani in Congresso. Gli incentivi dell’Ira stanno beneficiando principalmente Stati tradizionalmente repubblicani, che hanno raccolto oltre l’80% degli investimenti, con conseguente rivitalizzazione di industria ed economia. Frenare l’efficacia del provvedimento rischierebbe di danneggiare i suoi stessi colleghi di partito (14).
I repubblicani hanno in realtà già provato ad indebolire l’Ira più volte dal suo passaggio, giocando al ruolo dell’opposizione ostruzionista. Prendersi tale responsabilità una volta tornati al potere potrebbe essere molto più difficile, soprattutto quando i benefici economici e i posti di lavoro generati saranno ormai tangibili nei vari Stati e collegi elettorali.
Una mossa che Trump potrà fare senza troppi calcoli è l’abbandono dell’Accordo di Parigi sul clima, una decisione che prese già durante il suo primo mandato e che Biden ha poi annullato riportando gli Stati Uniti nell’Accordo. Questa volta, un ritiro potrebbe avere conseguenze più profonde e durature. La scelta confermerebbe l’inaffidabilità degli Stati Uniti in questo tipo di negoziazioni, così come l’incapacità di mantenere gli accordi presi, e lascerebbe il paese sempre più isolato.
L’aggressione russa in Europa ha sì spinto gli alleati europei ad abbracciare il gas statunitense nell’immediato, ma ha anche accelerato i programmi di decarbonizzazione e rilanciato le ambizioni di autonomia energetica. Un’Europa impegnata nella ricerca di soluzioni di approvvigionamento sostenibile non è un partner commerciale ideale a lungo termine per l’industria estrattiva statunitense. Investire oggi ancora di più nell’esplorazione ed estrazione di petrolio e gas rischia di portare il paese, a fine decennio o oltre, quando i tempi lunghi dell’industria renderanno i nuovi giacimenti disponibili sul mercato, a una condizione di relativa sovrapproduzione rispetto alla domanda europea. Una tale situazione costringerebbe gli Stati Uniti a guardare altrove, in particolare all’Asia, come area in grado di assorbire l’offerta ed evitare una depressione dei prezzi, finendo in diretta competizione con altri grandi paesi produttori (15).
Le relazioni internazionali
A seguito della conferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea ci si aspetta continuità nell’impegno dell’Europa verso gli obiettivi dichiarati di efficienza, sostenibilità e risparmio energetico. Indipendentemente dalla realizzabilità dei target dell Green Deal europeo, l’Unione sembra interessata a discutere con Washington principalmente di innovazione nelle tecnologie pulite, armonizzazione delle politiche di decarbonizzazione industriale, e pratiche commerciali riguardanti i veicoli elettrici e tecnologie cinesi.
Tra questi, l’unico tema che sembra attirare l’attenzione di una possibile nuova Amministrazione Trump è proprio l’ultimo. Gli stessi Stati Uniti sono alle prese con la competizione cinese, con cui hanno faticato a stare al passo negli ultimi anni, e la risposta di Trump è sempre stata l’imposizione di dazi. La guerra commerciale contro Pechino, lanciata dalla sua amministrazione nel 2018, è continuata strisciante anche sotto Biden, che ha mantenuto le misure del suo predecessore e addirittura annunciato recentemente dazi del 100% sulle auto elettriche cinesi (16). Il ritorno di Trump, che ha già promesso di aumentare i dazi al 60% su tutte le importazioni cinesi, non farebbe che esacerbare il conflitto, esponendo l’Europa – e soprattutto la Germania – sia all’aggressivo protezionismo statunitense sia alle ritorsioni di Pechino (17).
Durante il primo mandato di Trump, il rapporto con i partner europei è stato conflittuale, con divergenze su questioni commerciali e di sicurezza, legate soprattutto al ruolo della Nato. Oggi, nonostante il nuovo collante offerto dall’invasione russa, l’Europa non sembra molto più attrezzata a gestire un secondo mandato di Trump. Le divisioni politiche interne al continente europeo, accentuate dall’ascesa dei partiti di destra e dell’avanzata del nazionalismo, rappresenterebbero un elemento di debolezza nei confronti negoziali con una nuova Amministrazione Trump”.
Gli inevitabili compromessi
Nelle conclusioni, Di Tommaso evidenzia come “alla prova di governo, i compromessi saranno inevitabili, soprattutto considerati i limiti all’azione presidenziale imposti dal sistema federale statunitense, legati cioè al ruolo del Congresso, delle corti, e degli Stati. Di sicuro, il nuovo presidente dovrà decidere come gestire l’eredità dell’amministrazione uscente, che ha trovato proprio nelle politiche ambientali una delle aree d’azione di maggior impatto. Quanto in continuità sarà la prossima presidenza con il corso intrapreso da Biden diventerà la misura delle ambizioni statunitensi e delle opportunità che i paesi europei avranno nella collaborazione con Washington sulle questioni energetiche”.
Posizione in linea con quella espressa da Gianluca Pastori nell’ultimo appuntamento della Rubrica di Geopolitica dell’Energia circa il ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti. “Donald Trump appare più rigido nelle sue posizioni a favore dei combustibili fossili, la deregulation e il ridimensionamento degli interventi a favore delle energie rinnovabili; una strategia che – a suo dire – dovrebbe permettere di ridurre il costo dell’energia, portare a raggiungere la “dominanza energetica” e accrescere la competitività dell’economia statunitense soprattutto nella sfida con il rivale cinese. Nonostante questo, attaccare frontalmente la normativa dell’era Biden appare difficile anche per lui, soprattutto se – come nel caso dell’attuale amministrazione – non potrà contare su una maggioranza chiara all’interno del Congresso.
(…) Non bisogna, infine, dimenticare che il Presidente, nonostante gli ampi poteri di cui gode, non è ‘un uomo solo al comando’, nemmeno nel caso di personalità ‘debordanti’ come Donald Trump. Come hanno dimostrato – da ultimo – le difficoltà sperimentate da Joe Biden negli ultimi quattro anni, la possibilità per la Casa Bianca di portare avanti la propria politica dipende, in larga misura, dalla capacità di instaurare un rapporto di collaborazione con il Congresso.
Le lezioni della Presidenza Biden
Nello scenario attuale, questo è un fatto tutt’altro che scontato, così come è tutt’altro che scontato il fatto che anche un Congresso espressione dello stesso partito del Presidente appoggi in toto le scelte di quest’ultimo. L’esperienza dell’amministrazione Biden e le difficoltà incontrate nel fare adottare pezzi importanti di legislazione (per esempio, il Bipartisan Infrastructure Act, uno snodo chiave del programma con cui la Casa Bianca contava di porre rimedio alle ricadute economiche della pandemia COVID-19) sono un buon esempio anche a questo proposito.
Il margine d’azione del nuovo Presidente dipenderà, quindi, molto dalla costellazione di potere che uscirà dalle elezioni e dagli equilibri che emergeranno fra la Casa Bianca e il Congresso, fra le due Camere di questo, fra i due partiti maggiori e – al loro interno – fra i diversi gruppi che li compongono. Una consistente legittimazione in termini di voto popolare offrirebbe un sostegno ulteriore alle sue scelte politiche. Tuttavia, sia nel caso del Congresso, sia in quello del Presidente la situazione appare, nella migliore delle ipotesi, incerta”.
In conclusione, “se a livello epidermico le posizioni appaiono chiare, sul piano pratico diversi aspetti importanti restano da definire, così come da definire resta il quadro internazionale entro il quale l’azione della nuova amministrazione si dovrà sviluppare e che negli anni passati ha giocato un ruolo centrale nel pilotare gli sviluppi dell’Oil&Gas statunitense.
Leggi l’articolo di Gianluca Pastori per approfondire ulteriormente le ambizioni e i limiti del ritorno di Trump in materia di politica energetica.
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