In soli 100 giorni, Donald Trump ha stravolto il clima politico e geopolitico legato all’energia, invertendo le politiche climatiche dei suoi predecessori e delineando una chiara strategia di dominio energetico. L’Unione europea rischia di trovarsi spiazzata di fronte a questo cambio di paradigma e farebbe meglio ad aggiornare le proprie strategie.
Donald Trump aveva promesso di porre fine alla guerra in Ucraina in un solo giorno, ma ha completamente sbagliato le sue previsioni in merito. Ha fallito anche nella sua politica tariffaria. Eppure, in 100 giorni, Trump ha cambiato il clima. Ma non quello in cui si pensa. Il presidente degli Stati Uniti ha trasformato radicalmente il clima politico intorno all’energia, sovvertendo i dogmi climatici che dominavano la politica energetica degli Stati Uniti prima del suo insediamento.
In soli tre mesi, ha ridefinito la traiettoria degli Stati Uniti nella governance energetica, sia a livello interno che sulla scena internazionale. Questo cambiamento non riguarda il clima atmosferico, ma piuttosto il clima ideologico, plasmato da ben tre decenni di politiche climatiche restrittive e spesso irrealistiche. Con lo slogan “energy pride”, Trump ha sconvolto l’ordine stabilito adottando misure che favoriscono i combustibili fossili e smantellando al contempo i resti delle politiche “verdi” del suo predecessore Joe Biden. Questa trasformazione segna un punto di svolta nella gestione delle risorse energetiche americane e nella geopolitica dell’energia globale.
Make Energy Great Again: la rottura con il climatismo
Il primo atto simbolico di Donald Trump per affermare la sua nuova politica energetica è stato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sulla decarbonizzazione. Questo ritiro, avvenuto già durante il suo primo mandato, è stato confermato non appena tornato alla Casa Bianca. Trump considera l’accordo come un attacco alla sovranità economica degli Stati Uniti, una sorta di “nuova truffa verde” volta a penalizzare le nazioni industrializzate a favore di attori come la Cina e l’India.
Con questa decisione Trump ha inviato un messaggio chiaro: gli Stati Uniti non si sottometteranno più alle politiche climatiche internazionali che considerano dannose per la loro competitività economica ed energetica.
Questa posizione non è nuova. Con la risoluzione Byrd-Hagel, nel 1997 il Senato degli Stati Uniti aveva espresso all’unanimità il rifiuto di qualsiasi politica climatica vincolante, motivo per cui Bill Clinton e l’attivista Al Gore non hanno mai ratificato il Protocollo di Kyoto (di cui non si parla mai del clamoroso fallimento). La risoluzione richiedeva esplicitamente che qualsiasi iniziativa internazionale sul clima includesse impegni da parte dei paesi in via di sviluppo e non danneggiasse l’economia degli Stati Uniti.
Con Donald Trump, questa linea di condotta ha trovato un’applicazione ancora più ferma e scontata, ridefinendo la visione americana della sovranità energetica e del ruolo degli Stati Uniti nella geopolitica dell’energia.
Donald Trump non solo ha ritirato gli Stati Uniti dall’Accordi di Parigi, ma ha anche intrapreso una rifondazione totale della politica energetica nazionale, rifocalizzando le priorità sui combustibili fossili, rilanciando il trascurato settore del “carbone pulito” e opponendosi alle iniziative internazionali e locali, come quelle della California, che stanno frenando lo sviluppo energetico degli Stati Uniti.
Questa posizione, sebbene controversa, si basa su una logica pragmatica volta a ripristinare la competitività americana e a rafforzare la sicurezza energetica nazionale. Non si tratta solo di una posizione difensiva. Trump ha anche lanciato un attacco frontale alle politiche ostili ai combustibili fossili, definendole “dannose e pericolose”. Secondo Trump, questa visione è incompatibile con i reali fabbisogni energetici dell’economia mondiale. Per realizzare la sua visione di Make America Great Again è necessario Make Energy Great Again.
Il piano Trump per il dominio energetico
Uno dei pilastri di questa strategia è la massiccia riduzione delle sovvenzioni e dei finanziamenti pubblici destinati ai progetti di energia rinnovabile.
Su indicazione di Elon Musk, l’Amministrazione Trump ha proposto di tagliare quasi 10 miliardi di dollari stanziati per lo sviluppo di tecnologie utopiche come l’idrogeno verde, la cattura e l’utilizzo del carbonio (Ccus) e lo stoccaggio di energia. Tagli che mettono in discussione le partnership iconiche con giganti come ExxonMobil e Occidental Petroleum, che, nell’ambito della loro strategia di branding green, erano disposti a investire una piccola parte del loro budget pubblicitario in queste spese fantasiose. Questi finanziamenti, ereditati dall’Amministrazione Biden nell’ambito dell’Inflation Reduction Act (Ira), sono considerati inefficienti e ideologicamente distorti. Rimuovendoli, Trump vuole riorientare gli investimenti verso progetti economicamente sostenibili e strategicamente utili, come lo sviluppo dei combustibili fossili.
L’Ue, invece, continua a promuovere progetti di energia rinnovabile che non sono economicamente insostenibili e imposti da una serie di direttive europee a partire dal 2009. Senza questo obbligo legale e i generosi finanziamenti pubblici, non si sarebbero installate così tante turbine eoliche e pannelli solari fotovoltaici.
L’Unione punta anche su tecnologie come l’idrogeno “verde”, nonostante i costi della sua produzione tramite elettrolisi. Soprattutto considerando che grandi fondi di investimento come BlackRock hanno deciso di non finanziare più questa aberrazione chimica, energetica ed economica (per approfondire rimando al mio volume L’utopie hydrogène). Non si può bruciare l’idrogeno, elemento chiave dell’industria chimica, solo per soddisfare una moda climatica. È come bruciare una borsa Gucci per riscaldarsi: assurdo e controproducente.
Ma tornando agli Stati Uniti, nell’ambito di questa campagna Doge, il Wall Street Journal riferisce che l’Amministrazione Trump prevede di tagliare circa 8.500 posti nel Dipartimento dell’Energia (Doe). Dei 17.500 dipendenti attuali, solo 9.000 sono considerati essenziali, il che significa che quasi il 50% della forza lavoro potrebbe essere eliminato in questa massiccia ristrutturazione.
Tramite decreto, Trump ha imposto al Procuratore Generale di identificare tutte le leggi, le altre normative e le prassi statali e locali che ostacolano l’identificazione, lo sviluppo, l’ubicazione, la produzione o l’uso delle risorse energetiche nazionali che sono o potrebbero essere incostituzionali, precluse dalla legge federale o altrimenti inapplicabili.
Vuole inoltre che vengano rimosse tutte le disposizioni che, a suo dire, dovrebbero affrontare il cambiamento climatico o che riguardano iniziative ambientali, sociali e di governance (Esg), “giustizia ambientale”, le emissioni di carbonio o i gas serra e i fondi per la riscossione di sanzioni o tasse sul carbonio.
Ha lanciato una guerra diplomatica con gli Stati che adottano “limiti impossibili da raggiungere”, come la California.
Via libera al Deep Sea Mining e il massiccio sostegno politico ai combustibili fossili
Trump ha anche adottato misure coraggiose per garantire le forniture di materiali critici necessari per le moderne tecnologie energetiche. In aprile ha firmato un decreto che consente l’avvio delle attività minerarie nelle acque della sua zona economica esclusiva. L’obiettivo è quello di raccogliere un miliardo di tonnellate di materiali critici in dieci anni, tra cui noduli polimetallici ricchi di cobalto, nichel, rame e terre rare. Questa iniziativa potrebbe aggiungere 300 miliardi di dollari al Pil degli Stati Uniti in un decennio e creare 100.000 posti di lavoro.
Ovviamente, questa decisione ha suscitato una forte opposizione da parte delle Ong ambientaliste che denunciano i rischi per gli ecosistemi marini. Ma per Trump la questione è strategica – superare la Cina nel controllo delle risorse critiche – mentre le Ong rappresentano gli interessi degli avversari economici degli Stati Uniti.
Ma il fulcro della strategia di Trump rimane il massiccio sostegno politico ai combustibili fossili. Ciò include:
– la riduzione dei tempi di approvazione per i progetti petroliferi e del gas (il segretario agli Interni Doug Burgum ha promesso di rilasciare i permessi in soli 14 giorni);
– il rilancio dell’industria del carbone pulito, con sussidi per modernizzare le infrastrutture esistenti (tuttavia, è ancora da verificare se sarà possibile, considerando che il gas di scisto è più economico del carbone per la generazione di elettricità);
– Aumentare le esportazioni di Gnl, in particolare verso l’Ue, per ridurre la dipendenza europea dal gas russo (paradossale risulta la posizione della Commissione che, da una parte, intende ridurre il gas il più possibile e, dall’altra, vuole importarlo per negoziare sulle tasse doganali).
Diventando un esportatore dominante di petrolio e gas, gli Stati Uniti stanno rafforzando la loro influenza geopolitica. L’esportazione di Gnl in Europa, ad esempio, riduce l’influenza della Russia e rafforza le alleanze transatlantiche.
Altro obiettivo di Trump è contrastare le ambizioni della Commissione von der Leyen di imporre la sua visione ecologica al mondo per via normativa. A tal fine, ha lanciato un’offensiva contro le normative europee che, secondo lui, rappresentano una minaccia per le aziende americane. Un esempio è il Protect Usa Act, che vieta alle aziende strategiche statunitensi di rispettare i requisiti Esg imposti dall’Unione Europea. Questa legge protegge i settori chiave dell’industria dei combustibili fossili e delle industrie estrattive, affermando al contempo la sovranità economica degli Stati Uniti.
Quale lezione per l’Ue?
In soli 100 giorni, Donald Trump ha stravolto il clima politico e geopolitico legato all’energia, invertendo le politiche climatiche dei suoi predecessori e delineando una chiara strategia di dominio energetico. Questa strategia si basa su una logica pragmatica: garantire la sovranità energetica degli Stati Uniti, rafforzarne la competitività economica e utilizzare l’energia come leva geopolitica.
Se l’Ue persiste nella sua politica climatica ideologica che, come afferma il rapporto Draghi, ha portato alla distruzione della nostra competitività industriale, mentre le emissioni globali di CO2 continuano a crescere a un ritmo del 2% all’anno, rischia di diventare sempre più marginale di fronte a un’America che si affida alla potenza energetica per plasmare il futuro.
La grande multinazionale Bp lo ha capito bene e ha abbandonato la politica green che l’ha portata a sottoperformare e ha anche deciso di separarsi dal suo chief strategy officer, Giulia Chierchia, che è stata dietro la strategia di transizione green dell’azienda (anche la sua posizione di responsabile dello sviluppo sostenibile sarà abolita).
Come dicevano i padri fondatori della Comunità Europea durante la conferenza di Messina nella casa privata di Gaetano Martino, “non ci sarà futuro senza energia abbondante e a basso costo”. Trump lo ha capito. Bruxelles-Strasburgo lo ha dimenticato.
A coronamento di questo radicale cambio di clima politico, il 100 esimo giorno è giunto anche l’annuncio dell’accordo siglato da Trump con l’Ucraina. Deriso per settimane e presentato erroneamente come un “accordo sulle terre rare”, il patto è stato firmato a Washington. Non si tratta di un accordo sulle terre rare – che sono peraltro piuttosto scarse in Ucraina – ma sulle “risorse naturali”, includendo quindi anche le risorse energetiche, in primis il gas naturale. Sono coinvolti anche manganese, titanio, grafite e molti altri materiali critici o meno, tutti utili per già oggi per l’industria, senza dover aspettare una transizione energetica che non interessa all’Amministrazione Trump.
Questo accordo porterà uno sviluppo di cui l’Ucraina ha un disperato bisogno. Garantirà anche una produzione di materiali fuori dalla sfera d’influenza cinese, il che è utile sia per gli Stati Uniti sia per l’Unione europea.
Quest’ultima, a mio avviso, esce umiliata da questo accordo: ci sono voluti gli Stati Uniti – e per di più Donald Trump – per creare in Europa le condizioni per questo sviluppo cruciale. L’Unione ha perso, perché non venderà turbine eoliche in Ucraina, ma resterà comunque acquirente di materiali prodotti da aziende americane in Ucraina. E non è certo il fatto che l’Ucraina dica che questo accordo non preclude l’adesione all’Unione europea a poter dare a Bruxelles l’impressione di aver ottenuto qualcosa.
Anche la Russia esce perdente da questo accordo, perché le imprese americane investiranno in Ucraina, dando così agli Stati Uniti una presenza visibile, ma anche discreta, per difendere i propri interessi. Questo complica notevolmente un’eventuale azione russa per riconquistare il territorio. È facile criticare Trump, che offre spesso il fianco con le sue fanfaronate, ma il suo entourage ha preparato con determinazione, da anni, tutto ciò che abbiamo appena descritto, e ora lo realizzeranno con efficacia.
È urgente che l’Unione europea si riprenda.
Samuele Furfari, professore di geopolitica dell’energia e alto funzionario della Commissione europea in pensione
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